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Antichi Mestieri

Nell’epoca della globalizzazione imperante, in cui Internet regna sovrano, dove le comunicazioni avvengono attraverso congegni elettronici che, da una parte sono il frutto di un progresso inevitabile, ma dall’altra ci tolgono il piacere di comunicare guardandoci negli occhi, parlare di antichi mestieri, in buona parte scomparsi, può sembrare anacronistico. Pur tuttavia siamo convinti che non è così perché rievocare le arti ed i mestieri legati alla storia locale fà parte essenziale del bagaglio culturale che ognuno di noi porta sulle spalle ed è l’inevitabile segno che ci fa dire che apparteniamo ad un certo luogo, ad un certo tempo, ad un certo popolo e che ci identifica e ci colloca in un posto preciso della nostra storia personale.
Questi ricordi, queste riscoperte rappresentano la nostra etichetta, le nostre radici, la nostra carta d’identità.
Dimenticare tutto ciò è grandemente deleterio, perché se lo facessimo verrebbe meno una parte del nostro retaggio, della nostra cultura e della nostra memoria storica.
Allora diventa di vitale importanza recuperare le tradizioni i mestieri di un tempo che fu, il dialetto nelle sue forme più arcaiche, riconoscere il valore delle radici, tentare di ritrovare la memoria storica della gente falconese, considerare originale ed autentica la identità territoriale che ci contraddistingue, tutto ciò deve essere indiscutibilmente auspicato e realizzato.
Ancora più urgente è la difesa e la promozione degli aspetti più significativi di queste attività lavorative antiche, in particolare darne informazione alle nuove generazioni che, pur vivendo nel nostro contesto, rischiano di non venirne più a conoscenza.
Un immenso patrimonio storico e di civiltà che corre il serio pericolo di essere totalmente dimenticato, cancellato, sopraffatto dalla modernità e dalla tecnologia.
Scoprire i valori delle tradizioni, degli usi e dei costumi che hanno fondato la nostra cultura e caratterizzato il nostro percorso storico, deve consentire di instaurare con il passato un rapporto che possa permettere di conoscere, capire e vivere in modo più consapevole il presente. Inoltre deve consentire di salvaguardare, recuperare, valorizzare e tutelare il capitale storico e sociale della nostra terra e della nostra gente, recuperando il significato civico e la memoria collettiva, valorizzando, infine, ciò che hanno saputo compiere i nostri progenitori.
Bisogna valutare anche l’opportunità di realizzare con chi ha cuore e volontà (associazioni di categoria, esperti ed appassionati di storia, intellettuali, amministratori volenterosi, ) un Museo Demologico locale sulla vita e la storia di Falcone. Ciò, unitamente ad altre iniziative similari, potrebbe costituire un prezioso contributo storico-culturale per i posteri e per la nostra cittadina ed un volano per lo sviluppo economico-turistico della zona.
Insomma c’è necessità di idee e progetti originali e coraggiosi, volti a creare nuovi interessi attorno a un mondo che in caso contrario finirebbe con l’essere fagocitato e annullato dal disinteresse e dalla globalizzazione nella convinzione forte che i “saperi “ della mano, non inferiori a quelli dell’intelletto, sono universali e la loro perdita rappresenta un impoverimento per tutta l’umanità.
Un lavoro non facile, ma che potrebbe trovare nuovi spunti e idee coinvolgendo l’universo giovanile, e magari con ciò realizzare anche nuovi sbocchi occupazionali in una cittadina come la nostra dove le occasioni lavorative sono piuttosto rare.
Ma chiediamoci innanzitutto che cos’è un mestiere? Il Devoto-Oli, uno dei più validi Dizionari della lingua italiana, così lo definisce: “L’attività specifica, di carattere per lo più manuale, esercitata abitualmente e a scopo di guadagno”.
Oggi possiamo parlare ancora di mestiere? Oppure dobbiamo parlare di artigiani? Fino a qualche anno fa quando una persona esercitava un lavoro di tipo manuale per guadagnarsi da vivere veniva indicato come esercitatore di un “Mestiere” e spesso si individuava con il mestiere esercitato (u zu Cola u scapparu, perché aggiustava le scarpe) oppure il mestiere lo si abbinava all’oggetto lavorato (u zu Nofriu u cuddaru perché produceva corde). Si sono citati, non casualmente, due antichi mestieri. ormai praticamente estinti per richiamare alla mente il nostro passato e la fatica che i nostri avi giornalmente vivevano per portare a casa un tozzo di pane frutto del loro sudore o ingegno. Tanti di questi antichi mestieri manuali oggi sono scomparsi perché con l’ausilio dell’elettronica e della tecnologia i prodotti che loro offrivano, o riparavano, vengono fabbricati più facilmente ed in serie e tantissimi sono stati soppiantati nel loro uso da altri più consoni alle moderne esigenze.
Parecchi altri mestieri sono in via di estinzione oltre a quelli rammentati, poiché al giorno d’oggi essi non hanno più quella originaria rilevanza economica e sociale e altri ancora sono cambiati radicalmente nella loro specificità iniziale. Nel breve elenco che seguirà si vuole solo riportarne alla memoria alcuni per non dimenticarli e naturalmente si sono scelti quelli maggiormente visti nella nostra fanciullezza e che i nostri vecchi ci hanno detto essere molto antichi e tipici della nostra zona. In più nel ricordarli si è inteso manifestare un segno di rispetto e riconoscenza verso quelle persone che tanto hanno fatto per farci ben vivere in quei tempi ormai trascorsi ed anche perché siamo sicuri che tanti, specialmente i più giovani, non abbiano mai conosciuto la loro esistenza. Ma iniziamo pure questa stimolante disamina:

U MULACUDEDDI (l’arrotino) che con il suo particolare carrettino munito di mola ad acqua si fermava nelle viuzze del paese per arrotare coltelli e forbici. Spesso a questa attività accompagnava anche la riparazione di paracqua (parapioggia e ombrelli).

U CALAFATARU (il calafataro) era colui che incatramava i gozzi, le barche di legno che servivano per la pesca. Quando le barche da pesca erano costruite solo di legno, i Calafatari per evitare le infiltrazioni d’acqua introducevano, tra le fessure di una tavola e l’altra dello scafo, pezzi di stoppa di canapa che successivamente impermeabilizzavano con del catrame. Questo nobile mestiere, tramandato di padre in figlio, è quasi del tutto scomparso perché oggi i pescherecci o i natanti in genere sono costruiti in ferro o in vetroresina (specialmente quelli da diporto).

U CANTASTORII (il cantastorie) era una delle figure più importanti della tradizione orale siciliana e della cultura popolare. I cantastorie (menestrelli, cantanti e affabulatori) si aiutavano con la raffigurazione, su un cartellone, delle principali scene della storia da raccontare e di uno strumento (chitarra, fisarmonica ecc.). Si spostavano di piazza in piazza in tutti i paesi della Sicilia. Alla fine delle loro esposizioni avveniva la raccolta delle offerte.

U CARRITTERI (il Carrettiere) prima della nascita dei mezzi di trasporto meccanici il personaggio mitico dell’iconografia siciliana era l’antico trasportatore di merci varie. Era lui il conducente (l’autista) del carretto trainato da muli o cavalli. Era un lavoratore un pò particolare perchè viveva per la strada, in quanto i viaggi duravano anche svariati giorni, e sopportava disagi di ogni sorta. A volte serviva a trasportare anche i familiari e ciò portò il carrettiere ad abbellire il carretto fino a diventare una sorta di “status simbol”. Più decorazioni aveva il carretto ( di norma raffigurante scene delle storie tratte dalle “Chanson de geste “ o dai poemi cavallereschi) meglio stava economicamente il proprietario …o almeno cosi si riteneva. Attualmente è una figura completamente sparita.

U CABBUNARU (il carbonaio) dopo aver raccolto la legna, la predisponeva in apposti fossati dove l’accatastava in modo da costruire una struttura conica e successivamente vi dava fuoco e indi la ricopriva di terra in modo che la cottura avvenisse con poca aria favorendo la trasformazione della legna in carbone previa l’accensione, come detto, del fuoco tramite una piccola fessura (putteddu). Dopo una lenta combustione, che poteva durare giorni e giorni, u cabbunaru provvedeva allo spegnimento con l’acqua ed all’insaccamento del carbone. Spesso si indicava con questo nome anche il venditore di carbone, che non necessariamente coincideva con il lavoratore del carbone.

U CUDDARU (il cordaio) era l artigiano che generalmente intrecciava per strada, con canapa e spaghi, cordami per la pesca e l’agricoltura. La sua abilità consisteva nel coordinare i movimenti delle mani e dei piedi perché una volta fissata la parte iniziale della corda ad un anello, attaccato al muro, il rimanente lavoro di intrecciamento lo svolgeva indietreggiando. Si serviva inoltre di altre persone, generalmente ragazzi, che contemporaneamente avvolgevano le funi tramite una ruota girata a mano.

U CUSTURERI (il sarto) era un mestiere che richiedeva proprietà innate per poter raggiungere alte vette di bravura e successo. U custureri faceva scegliere la stoffa, tagliava e cuciva abiti su misura. Ormai sono rimasti in pochi i “Couturier” ( il termine deriva infatti dal francese) perché adesso con l’avvento degli abiti già confezionati questa figura di abile e creativo artigiano è andata, purtroppo, via via sparendo.

U FIRRARU-FERRASCECCHI (il maniscalco) questo antico ed affascinante mestiere nelle nostre zone è quasi scomparso. Egli non ferrava soltanto cavalli, muli ed asini ma provvedeva alla pulitura degli zoccoli con punteruoli e tenaglie di varia misura.. Questi lavoratori, inoltre, realizzavano anche attrezzi per l’agricoltura, bardamenti ed anche inferriate varie.

U SCAPPARU (il calzolaio ) mestiere antico oggi quasi scomparso. U scapparu faceva le scarpe di sana pianta oppure le riparava, metteva sopratacchi, risuolava o rinforzava le cuciture. Adoperava attrezzi particolari : l’affilatissimo coltello (u trincettu), la lesina, le forme di ferro e di legno (i fummi), il caratteristico martello, la tenaglia, l’ago (a ugghia), i vari tipi di chiodi, l’uso della cera che fornivano gli apicoltori. Per i più poveri i lavori effettuati erano perlopiù grossolani, per i piu abbienti invece le riparazioni erano di solito piu accurate. la risolatura delle scarpe dei contadini era eseguita con chiodi dalla grossa testa e si applicavano ferretti per non consumare velocemente punte e tacchi.

U SIGGIARU (l’aggiustasedie) di solito pur avendo una piccola bottega ricavata da una stanzetta a piano terra di casa sua, egli svolgeva il suo lavoro per strada davanti la casa del cliente che lo aveva chiamato oppure in un angolo o una piazzetta del villaggio da dove aveva richiamato ad alta voce i propri clienti. Con vari tipi di paglia, martello, chiodi, colla e raspa riparava ed impagliava le sedie. Questi artigiani erano insostituibili perché le famiglie riparavano tutto ciò che si rompeva o usurava non potendo acquistare arreddi ed oggetti nuovi.

U STAGNARU (lo stagnino) anche “u stagnaru” possedeva spesso una piccola bottega ma anche lui non disdegnava di fare questo lavoro per le strade. Le massaie facevano stagnare specialmente le quattare e le padelle per isolare il cibo dal rame della pentola ed evitare la tossicità del rame a contatto con gli alimenti. Con una piccola fucina a carbone ed un bastoncino di stagno spalmava tutta la superficie della padella e l’accomodava.

“U stagnaru”

U BUTTARU (il bottaio) era un antico mestiere di privilegiati perché fare il bottaio non era da tutti, ci voleva precisione ed esperienza in quanto le doghe dovevano essere ben piallate e messe una accanto all’altra senza alcuno sfiato, unite da cerchi di ferro. “Un corpu a butti e unu o timpagnu” (un colpo al cerchio ed un altro alla botte) per indicare la precisione con cui i mastri bottai dovevano contemporaneamente sistemare le doghe ed arcuare il ferro di sostegno. Rovere e castagno erano i legni preferiti dai bottai per contenere i nostri pregiati vini. Purtroppo anche le botti gradualmente vennero sostituite da contenitori d’acciaio o di vetroresina ed il mestiere del bottaio sta ormai diventando solo uno sbiadito ricordo del passato.

“U buttaru”

U CANNISTRARU (Intrecciatore di vimini) era un mestiere tipico delle zone rurali, dalle origini antichissime. Probabilmente la produzione di cesti di vimini è una delle attività artigianali più antiche conosciute dall’uomo, pare già dal neolitico; molte testimonianze risalgono ai Greci e ai Romani, che costruivano cesti, recipienti e sedili in vimini (gli artigiani che nell’antica Roma lavoravano il vimini si chiamavano vietor o viminator). Nella cultura contadina l’arte viminale in realtà consisteva in un vero e proprio lavoro da svolgere nei periodi di disoccupazione stagionale, cioè costituiva una fonte di reddito alternativa quando il lavoro in campagna scarseggiava. Soprattutto nei periodi invernali, fasi delle stagioni in cui il lavoro nei campi era rallentato, uomini e donne creavano con il vimini ed altre fibre vegetali diversi oggetti utili alla vita quotidiana: panieri (panàra), canestri (cannìstri),i graticci di canne fesse intrecciate ( cannizzi ) che venivano utilizzati o per essiccare frutti e/o ortaggi o, quelli di dimensioni maggiori, per stendervi sopra grano e cereali. e altri contenitori di vario tipo (cufìni). In ogni casa non mancavano tali oggetti poiché i prodotti alimentari si conservavano meglio in recipienti vegetali.
Per trovare i cespugli più adatti, le piante e i rami migliori per l’intreccio bisognava conoscere il territorio, cercare vicino ai ruscelli e nei terreni argillosi.
Era un’arte che fondeva l’ingegno e l’abilità manuale con la conoscenza del territorio e della natura circostante.
I vimini per essere lavorati dovevano essere flessibili e adatti alla torsione: infatti nella prima fase della lavorazione servivano oggetti adatti a tagliare, battere e forare il vimini, ma la torsione era la fase della lavorazione più importante e andava attuata unicamente a mano. La lavorazione avveniva attraverso l’uso di bacchette di canna, giunchi, verghe e virgulti di olivo che venivano intrecciati e collegati tra loro. Tra le realizzazioni più tipiche vi erano i “canciddi” ovvero delle grosse ceste che venivano poste sul dorso delle bestie da soma per essere trasportati.
L’arte viminale, come la maggior parte degli antichi mestieri della cultura contadina, rischia di scomparire ed è oggi praticata da pochissimi artigiani.
Gli oggetti di uso quotidiano sono ormai prodotti con tecnologie e materiali sofisticati ma ad alto impatto ambientale.

“U Cannistraru”

U CRITARU (Il vasaio) Un tempo il mestiere doveva rispondere proritariamente alle esigenze della vita quotidiana, se non già della dignitosa sopravvivenza.
Tali esigenze, nel caso del vasaio, erano quelle di far sì che i propri clienti potessero conservare, cuocere, trasportare ogni tipo di alimenti, bevande e liquidi. Ogni oggetto aveva dunque una sua destinazione d’uso ben definita. Il vasaio fabbricava anche tegole, mattoni e laterizi vari per piccoli lavori edili,
L’artigiano, per realizzare i suoi oggetti impastava la terra, la sgrassava con segatura di legno e con combustibili minerali e modellava la pasta con le mani e con torni rudimentali, oppure usando degli stampi o ancora per fusione.
Il settore artigianale oggi attraversa una profonda crisi.

A RACCAMATURA (la ricamatrice\tessitrice) Tra gli antichi mestieri non si può non ricordare quello delle ricamatrici. Il ricamo in Sicilia nasce come una delle espressioni della cultura saracena. L’ isola è stata, infatti, una terra ricca di ricamatrici, donne che riuscirono a far diventare il ricamo un vero e proprio mestiere già ai tempi di Federico II.
Nei paesi oltre all’agricoltura, il ricamo rappresentò per lungo tempo un vero fattore di sviluppo economico. Le ricamatrici, grazie alle loro particolari tecniche di cucito, riuscivano a creare particolari abiti, tovagliati artistici e corredi personali che venivano poi venduti soprattutto alle famiglie che avevano figlie da marito, specie quelle che versavano in condizioni economiche più agiate.
Anche questo mestiere oggi, con il predominio del sistema industriale, stà rimanendo purtroppo soltanto un ricordo del passato.

Andra Catalfamo